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This document was published in Venice in 1867 by Luigi Filippo Bolaffio, who was a school companion of Luigi Scolari. It recounts the events of June 14th, 1859, when Scolari was killed by Austrian soldiers.
The original has is hard to find, but several reprints are in circulation. The text below is from the original, as digitized by Google Books. A copy of the PDF is here.
I have translated the text into English.
See also: Frezzarìa (piscina, ramo di) – Curiosità Veneziane
Il 14 giugno 1859 – memorie di Luigi Filippo Bolaffio (1867)
LUIGI FILIPPO BOLAFFIO
IL 14 GIUGNO 1859
MEMORIE
VENEZIA
Coi Tipi di Edoardo Sonzogno
Non mi si voglia dar taccia d’immodesto, se al mio povero nome è posto in capo a questo meschinissimo libercolo. Non l’avrei fatto se non dovessi in esso svelar qualche nome e toglier forse la maschera a qualcuno. Perciò sarebbe stata inonestà la mia, îl non far conoscere all’accusato, l’accusatore.
Duolmi se spesso dovrò pronunziare il mio nome, ma ciò è indispensabile, come i pochi amici che leggeranno queste righe potran giudicarlo.
Per qualche persecuzione non vorrò certo atteggiarmi a martire od italianissimo, che se v’è cosa la quale mi rimorda, è quella d’aver troppo poco sagrificato al mio paese.
L. F. BOLAFFIO.
IL 14 GIUGNO 1859
I
Sono passati otto anni, lunghi come otto anni d’esilio, eppure io mi rammento ancora di quel giorno che ebbe tanto lieto principio, che finì fra tanta universale mestizia.
Io studiava allora al Ginnasio di S. Catterina retto da quella forte intelligenza del Prof. Corradini, il quale tutto intento com’era ai severi studi della lingua del Lazio, lasciava la cura dell’istituto all’abate Adriano Merlo vice direttore.
Al mattino del 14 giugno, noi andammo in iscuola ilari in volto, gaudenti in cuore, poiché sapevamo che vicina alle nostre lagune era la flotta Franco-Sarda e noi tutti l’avevamo veduta, dalle alture dei campanili su cui ci eravamo arrampicali e coll’ajuto delle lenti avevamo guardato e col cenno della mano e collo agitar dei fazzoletti avevam salutato quei sacri legni sulle cui prore sventolavan le bandiere di due nazioni che si andavano a porre in testa dell’incivilimento Europeo.
Il professore di tedesco non si attentava a quei giorni di venir solo in iscuola, era sempre accompaganto [sic] da qualche altro professore, chè i fagiuoli e le freccie di carta gli eran qualche volta piovuti sul muso. Poveretto! gli avean rotta una gamba a Milano e temeva che noi gli rompessimo la buona. E diffatti, se ho da esser sincero, la proposta era corsa e quasi accettata.
Il mattino di quel dì, un cadetto austriaco era passato sotto ai chiostri e si recava a salutare un suo fratello convittore. Invece di trovarvi il parente, avea trovata una salva di sonorissimi fischi.
C’era davvero del coraggio in noi giovanetti nell’affrontare così l’ira degli Austriaci i quali dopo qualche scappelotto ricevuto sui campi lombardi, inferocivano a Venezia più che mai.
Eppure noi gliene abbiamo fatte di belle !
Quanti calzoni bianchi di ufficiali macchiati dalle nostre fiaschette d’inchiostro che cadevano per caso a terra e si frangevano mandando spruzzi neri su quei panni bianchi.
Quante palle di neve lanciate contro quei poveri boemi accasermati ai Gesuiti!
Quanti fischi! quante risate alle loro spalle! quante. iscrizioni su pei muri!
II
Ma io mi distolgo troppo dall’argomento e quasi vado tessendo una storia di impertinenze scolastiche allora quando la ragione per pochissimo entrava nelle nostre deliberazioni.
Il mattino dunque del 14 giugno 59 eravamo lieti.
Avevamo notato per Venezia, prima di venir alla scuola, un maggior numero di gente per le vie, un bisbigliare, un fermarsi a cappanelli per le vie, insomma qualche cosa d’insolito.
Sotto i chiostri dell’ex convento, ora Ginnasio Liceale, mancavano i figli di qualche austriaco che dimorando fra noi, mandava a scuola i suoi rampolli.
L’ora della scuola era giunta e questi biondi figli del Norte non eran venuti, essi che non mancavano mai!
Che cosa era accaduto?
Cominciammo a tirarne qualche conseguenza, a far qualche congettura, a lasciar correr sbrigliatamente la nostra immaginazione.
Suonavano fortutatamente le dodici ed il bidello, il più bel tipo di bidello che madre natura abbia creato, suonò quella simpatica campana che ci liberava dalle incertezze col darci ìl mezzo di assumere informazioni.
III
Correva per Venezia la voce che l’Austria avesse ceduto, che i Commissari del Re d’Italia fosser venuti a trattar della resa. S’era veduto un insolito movimento nella flotta che ci bloccava.
Il cuore a quelle notizie non era scoppiato per miracolo! Tutti siam corsi su per le alture, su pei campanili a vedere; per la vie, pei campi ad udire, ad informarci.
Tutte le apparenze ingannavano. Non un soldato austriaco che si facesse vedere. Qualche rarissimo ufficiale, dimessa la tradizionale baldanza, mogio mogio svoltava le calli per recarsi a raggiungere i compagni.
Alcuni di essi, insultati non risposero.
Uno solo che fu gettato a terra, in buon italiano disse: signori, sono un militare d’onore e come tale mi rispettino! Era un italiano e gli fu sputato sulla faccia. Ed egli si rialzò e tacque.
Dunque qualche cosa di grosso v’era sicuro per aria. Generalmente si credeva che quello fosse stato l’ultimo giorno della dominazione straniera e che all’indomani svegliandoci avremmo veduti i nostri bei bersaglieri irromper nelle strade.
IV
Con quali disposizioni dell’animo siam ritornati a scuola nel dopo pranzo è facile immaginarlo.
Alcuni professori che avevan la coscienza nera, erano bianchi in faccia come la neve che cade sulle eccelse cime dell’Hymalaia, altri ilari e sorridenti.
Il povero prof. Pizzo, morto alcuni giorni or sono, ed il prof. Rossi sepolto anch’esso a S. Cristoforo, mi ricordo che sudavano allegrezza da lutti i pori.
Entrammo in iscuola e cominciammo le lezioni con quella svogliatezza che era causata dalle circostanze eccezionali.
V
Non erano ancora scoccate le tre quando un immenso urlo partendo dalla parte del campanile, rintronò sotto ai chiostri.
Un brivido ci corse per le vene. Rimanemmo ansiosi aspettando.
Un nuovo urlo ci scosse. Il grido di Viva l’Italia era stato pronunziato e noi a quel grido frenetici rispondemmo Viva l’Italia!
Saltammo giù dai banchi, spalancammo la porta della scuola e raggiungemmo gli studenti del sellimo e ottavo corso che ci aveano dato il segnale. Dietro a noi tutte le classi.
Lo scoppio d’evviva fu allora infinito, assordante. Fra quello schiamazzo, incessanti s’udivano gli evviva all’Italia a Vittorio Emanuele!
«Fuori, fuori tutti, e morte ai tedeschi!» gridò una voce.
Morte! ripetemmo noi, e impugnati i temperini, unica arma che avevamo indosso, ci mettemmo a correr per le vie.
In Spaderia sventolava da una casa la bandiera tricolore. Il popolo che c’incontrò ci fe’ ressa d’intorno e si mise anch’esso a seguirci e a gridare.
Cosa strana, da un istante all’altro, senza saper d’onde ci venisse, portavamo sulle nostre berrette, sui nostri cappelli la coccarda tricolore!
Giunsimo strepitando fino alla Merceria. Quivi incontrai un mio parente il quale allorchè mi vide col mio bravo temperino squainato, colla coccarda tricolore piantata sul cappellino, posando da eroe, mi fece scendere alla più dura realtà e presomi rudamente per un braccio mi trascinò a casa. Io mi dibatteva, ma un ferreo polso stringevami le braccia ed ogni opposizione fu inutile.
Pochi minuti trascorsi dacché mi trovava in casa, intesi lo scalpitio di gente che fuggiva. Mi posi alla finestra per guardare. Erano i miei compagni sbandati.
Un istante dopo, a breve distanza, mi colpi il suono di una fucilata !!!…
Dio mio, quanti dei miei condiscepoli er«n morti?…
VI
Uno fra i promotori della dimostrazione era stato Luigi Scolari studente della settima classe, il quale toccava appena i vent’anni.
Noto fra i suoi condiscepoli per spirito liberale ed irrequieto, godeva la stima e l’affetto di tutti.
I magnati del Liceo l’avevano dapprima allontanato dalle scuole perchè a Murano con pochi amici celebrava l’onomastico di Vittorio Emanuele.
Fu allora che tentò varcare i confini per raggiungere le schiere italiane ed arruolarsi.
Venne respinto e fortuna per lui che avesse già compito in patria agli obblighi coscrizionali, chè altrimenti sarebbe stato severamente punito.
Egli in quella giornata come dissi fra i primi avea gridato: Viva l’Italia.
Verso le ore quattro con um gruppo di amici si recò in Frezzeria e di là corse in Piscina S. Fantin. Fu incontrato da una pattuglia di croati che spianò i fucili contro i pochi giovanetti. A quella vista essi fuggirono. Rimase solo Scolari, il quale volgendosi indietro vicino al Capitello della Madonna che è fra la Piscina stessa e la Calle che conduce in Frezzeria, rise in faccia agli oppressori della sua patria.
Per risposta i soldati che componevano la pattuglia scaricarono i fucili e Luigi Scolari cadde ferito mortalmente ad una gamba. Le sue uniche parole furono: Dio mio, sono morto!
Dopo un’ora di spasimi atroci, abbandonato sulla pubblica via, fra un lago di sangue, venne finalmente raccolto e condotto all’Ospedale Civile.
Sono inenarrabili le sofferenze del povero giovane. Pure furono rari i lamenti. Dal suo labbro non s’udì che qualche parola di maledizione ai suoi uccisori. Domandò della madre, del padre, del fratello e non potè vederli.
Alla sua agonia, essi, ignari dell’ accaduto, non assistettero.
Col cuore ulcerato, senza una persona amica accanto al letto dì morte, spirò la notte stessa alle ore due e un quarto, e qualcuno asserisce che le sue ultime parole fossero quelle che per primo aveva pronunciate al Liceo: Viva l’Italia!
VII
Il giorno stesso altri furono uccisi o feriti. Uno al ponte di Rialto, uno in Chiesa San Marco, uno in Calle Larga.
Le vie erano deserte e solo calpestate dai lenti passi delle pattuglie. Proibito 1’accesso in Piazza San Marco.
Alla notte si arrestarono moltissimi liberali; Circondati da una ventina di sgherri, giovani di tutte le condizioni, dall’elegante lion del caffè Florian, all’umile operaio, venivano a frotte immanettati e tradotti a San Severo.
Nei luoghi ove il sangue avea lasciato traccie, alcuni individui erano occupati a lavare e raschiare.
Ad ora tarda escirono due proclami, del Podestà l’uno e l’altro del Luogotenente.
Nessuno li lesse.
VIII
Narrare il dolore della famiglia allorchè seppe la sventura atroce toccatagli, sarebbe cosa superiore alla capacità umana. La madre, idolatra del figlio, nessuno da quel tempo potè vedere per le vie. Il padre non attese più ai suoi affari e si ridusse in condizioni criticissime.
Era tutta opera del Governo austriaco.
Il qual Governo ebbe perfino l’infame intolleranza di non permettere che in quei di s’attaccasse su pei muri la seguente semplicissima epigrafe od annunzio mortuario che dir si voglia, il quale era già pronto:
L'ALBA DEL XV GIUGNO MDCCCLIX FU L'ULTIMA PER IL GIOVANE LUIGI SCOLARI DI STEFANO VENTENNE STUDENTE IN VII CLASSE NELL' I. R. GINNASIO LICEALE L'IMMATURO SUO FINE ABBIA IL COMPIANTO DI TUTTI QUELLI CHE LO CONOSCEVANO ED IN ISPECIE DELLA GIOVENTÙ ALLA QUALE ERA AMICO. GL'INCONSOLABILI GENITORI .
IX
Sotto la Madonna dove fu ferito Scolari, v’ è un buco più largo forse di quello che potrebbe farlo una palla di fucile. È causato dalle raschiature per togliere le traccie del sangue che avea spruzzato sulla muraglia.
L’Austria non pensò mai di far scomparire quel segno il quale resta a testimonio d’un atto della sua barbarie.
Alcuni giovani amici e conoscenti della vittima pensarono di apporre una modesta lapide commemorativa vicina al luogo ove lo sventurato studente cadde.
Si costituirono in commissione i signori Arrigo Rebussini — G. S. Filippini — Giacomo Polacco — L. F. Bolaffio e raccolsero sottoscrizioni che non dovessero sorpassare i Cent. 25 affinchè tutti gli amici del defunto potessero prendervi parte.
La pietosa idea venne universalmente lodata ed in soli tre giorni questa Commissione raccolse 400 offerte.
La lapide porta la seguente iscrizione :
QUI DA PIOMBO AUSTRIACO COLPITO CADDE INNOCENTE VITTIMA LUIGI SCOLARI IL 14 GIUGNO 1859 A RICORDO DI PATRIA CARITÀ AD ESECRANDA MEMORIA DEI CARNEFICI ALCUNI CITTADINI POSERO 1867.
X
Passando per quella via, dove la pietà cittadina pose la lapide ad esecranda memoria dei carnefici, il pensiero dovrà necessariamente correre ai tempi nefasti in cui dalle nostre antenne sventolava il vessillo giallo e nero.
Tempi in cui qualunque parlasse in lingua alemanna poteva impunemente insultare un italiano.
Tempi in cui un Luogotenente dell’Austria era padrone delle sostanze e delle vite dei cittadini, in cui ogni commissario di polizia era un principotto dispotico, in cui era illecito parlar di patria, in cui la stampa, questo palladio della libertà, od era imbavagliata, o colla briglia sciolta insultava le più sacre aspirazioni, i più caldi affetti, le più sublimi idee.
Tempi in cui i migliori eran racchiusi nelle carceri o deportati nelle fortezze, o arruolati per punizione nelle milizie, e giravan le vie tronfi e pettoruti i più malvagi, cui la galera sarebbe stato lieve castigo alle tante colpe commesse, alle tante famiglie rovinale.
Il diritto del più forte otteneva allora la sua più feroce sanzione.
Valeva più la sciabola d’un caporale croato, che le rimostranze d’un migliaio di cittadini.
Per Dio! E v’è qualcuno che istituisce confronti e quasi rimpiange il passato?
Meriterebbe d’esser posto alla gogna!
XI
Due anni dopo quasi all’istessa epoca della narrazione che ho abozzata, moriva il Conte Cavour, la più salda colonna della libertà, della unità Italiana.
Collegando le due occasioni dolorose, gli studenti di Santa Catterina deliberarono di portare il lutto in un giorno prefisso. Quel giorno, il Professore di Fisica Rossetti entrò nella classe ove io studiava vestito anch’esso a bruno. Un unanime applauso lo accolse. Io aveva scritta una poesia per l’occasione.
Spaventato da quello scoppio di simpatia, temendo che la pagnotta gli fosse tolta, cercò mostrarci come egli fosse vestito a bruno per una mera combinazione.
Diffatti mi carpì la poesia e dopo alcuni giorni io e con me sei amici venivamo licenziati da tutti i ginnasii della monarchia austriaca per gravi insubordinazioni.
La mia carriera fu rovinata.
Sarei stato arrestato se il Prof. Rossi non avesse abbruciato il corpo del delitto e se in mio favore non avessero parlato i Professori Pizzo e Matcheg, contro l’opinione dell’abate Merlo, anima tristissima, più austriaco dell’imperatore d’ Austria.
I Professori Rossi e Pizzo son morti entrambi, il primo dopo un colloquio col Luogotenente Toggemburg, in cui era stato insultato senza poter rispondere, il secondo per le persecuzioni sofferte dall’Austria, non riparate dal governo italiano.
I Professori Merlo e Rossetti, son vivi e sanissimi. Il primo direttore d’un foglio clericale, continua impunemente ad insultare tutto ciò ch’è caro agli Italiani; il secondo regge la cattedra di Fisica nell’ Università di Padova.
Dinanzi a questi ed altri consimili fatti, l’opinione pubblica si crea un terribile quesito :
Se cioè non fosse tornato maggiormente utile l’esser servi del governo straniero, piuttosto che aver cosumata la vita o fra i pericoli delle cospirazioni, o sui campi delle patrie battaglie.
Sul retro
CENTESIMI 50.
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