Il Gran Contagio di Verona — Francesco Pona — libro primo (modern)

Cover of the first part (libro primo)

IL GRAN CONTAGIO DI VERONA

Descritto
DA FRANCESCO PONA.

LIBRO PRIMO.

Sedeva nel Venerando Solio dì Pietro, l’Ottavo URBANO, Sommo Pastore; governando con pacifica verga, la Catolica greggia. E dopo debbellate l’Idre delle Guerre Germane, Imperava Ferdinando Secondo: reggendo i Galli Lodovico, lo Invitto, il Giusto. Rette erano le Spagne, dal Quarto Filippo d’Austria: e nella Ducal Sede della Republìca Veneta, Duca di se stesso augusto spettacolo Nicolò Contarini; chiaro, e grande, anco nelle Senatorie Fortune. Giaceva la Italia, in un Otio, quasi che spensierato, e lontana da gli Studi laboriosi del nascimento, anneghittiva tra lussi, confidando nella siepe de gli alti Monti, e nella custodia de’ vasti Mari. Paga solo di se medesima, e superba per i fasti del nome antico; poste in disuso le discipline del prisco secolo, con baldo animo sollazzava, sprezzando i barbari, e trionfando dentro se stessa. Quando mosso il Rettor Supremo, dal lezzo de gli errori della travviata Provincia, risolse di vibrar il fulmine della Ira giustissima sopra di essa.

Si sentirono i preludij del terribile, ma lento castigo, nelle Morti de gli armenti; che con insolito eccidio, cadevano l’ un dopò l’altro, nel solco ancora imperfetto: E altresì nella fame commune à tutta la Italia, onde furono spesso veduti ì poveri, assottigliati dalla inedia, masticare le foglie crude, e la crusca arida.

Era tempo ancora alla conversione; e potevasi togliere con la penitenza il flagello dalla mano Divina; mà i cuori accecati, & indurati, ò non vedevano, ò non sentivano: onde avvanzandosi il castigo, sparse la Pestilenza così mortale, che forse di pari non apportano alcuno essempio le Historie.

Permise la imperscrutabile Sapienza della mente Divina, gli cui giudicij sono infallibili, e gìustificati in loro medesimi, la estintione della retta Prosapia della Ducal Casa Gonzaga di Mantova; per lunga successone di secoli, forse la più felice, e la più in gratia alle Gratie, delle Italiche Famiglie Reali: onde nella Morte di Vincenzo Secondo, che fu l’ultimo de’ Figliuoli del Primo Duca Vincenzo, terminò quella linea: essendo poco innanzi al morir di quello, successo lo accasamento tra il Principe Carlo, Figliuolo di Carlo Gonzaga, Duca di Nivers, e Donna Maria, Figliuola del già Duca Francesco.

Hora, pretendendo più d’uno la Investitura dello Stato di Mantova; e fra gli altri, con gran ragioni, Carlo Duca di Nivers; avvenne, che scendendo egli con notabìl franchezza d’animo l’Alpi; senza trasferìrsi personalmente à riverir Cesare, & à chiedere da quello, come da arbitro in tal negotio l’Investitura; ò ch’egli ciò non giudicasse neccessario, ò che il tempo e gli emergenti non servissero; ò qual altra la cagione si fosse; mà dirittamente portandosi al Possesso dello Stato; avvenne (dico) che se nè sdegnò Cesare acerbamente; e con manifesti prima dìcchiarandosene offeso; e poi armando poderoso Essercito contro Mantova; ecco, che il Duca Carlo, come legitimo discendente e confidato nello aiuto de gli amici, si allestì con animo invitto, per resistere à qual si volesse Potentato, che mosso si fosse, per disturbarlo dal già preso Possesso.

Cesare in tanto, cessate già le procelle, e tranquillate le Turbulenze Alemane, posando in bella calma pacifica, d’ogni intorno cinto di Vittorie, e di Lauri, militando non che altro, anco la Fortuna per le sue glorie; sotto il Generalato di Rambaldo Collabo Conte, ordinato già lo Essercito, di gente per lunghe prove sperimentata, inviò gl’ Imperiali stendardi verso la Italia; e sotto Mantova, il giorno vigesimo ottavo di Ottobre del 1629. piantò le sichiere.

La Spagna, era collegata con Cesare ; e la Francia s’era dicchiarata per lo Duca Gonzaga; unitesi con Lui l’Armi Venete. Fiorenza, con apparato decente custodiva se medesima: così gli altri minori Principij neutri al possibile si stavano, con gelosia, e con riguardo. Milano, temeva all’apparire de gli intermedij Francesi, di farsi non solo parte, mà scena della tragica favola.

Fù posto finalmente l’assiedio à Mantova; Città sempre intatta dalle violenze nemiche à memoria di Historie: piena di ricchezze, per cento e più lustri ragunate, sotto Principi di gusti delicati, e sublimi; avvezi alle delitie; alla cui norma regolandosi anco i sudditi, era fatta quella Città uno erario di pretiosissimi corredi.

Io ne lagrimo la memoria ; perche una testa Coronata, hà bene stato più ampio, mà non forse maggior tesoro; e se l’hà di maggior valsente, non l’hà certo di pari gratia, Lautezza , e dispositione. Gemme rare, esquisitamente lauorate. Pitture, da muover invidia al Moderno Vaticano, & al Campidoglio antico. Bottiglieria scielta per materia, e per lavoro. Adobbì da un Alessandro Macedone, s’egli si fosse così dilettato di lussi, come di guerre. Giardini, da esser desiderati per hospitio, e per cura di Fauonio, e di Flora. Tutto à un punto fatto bersaglio delle vicende del tempo, e della Fortuna. Udite voi posteri, & apprendete quindi Prudenza. Conoscano i Popoli, che passano com’onda , e fumo le humane pompe.

Ed ecco i rimbombi delie bombarde nimiche, percuoter di pari e le mura, e gli animi de’ Cittadini. Mi figuro la confusione di quel Popoli, dati alla pace, a i balli, alle scene; all’ hora fatti bersaglio d’ un nimico risoluto, mà non so esprimerla con la penna. Mi par di vedere i colori fuggitivi da’ volti delle Matrone, non avvezze al suono di Bronzi tonanti, mà solo d’ Arpe, e di Leùti; mà tentando dì raccordare così doloroso oggetto, trovo impedite le parole. Mi rappresento in seno all’ angoscie le Sacre Vergini, l’ altre fanciulle, gli atterriti giovani, i mesti Padri, & ogn’ ordine di persone, fuoriche alcuni intrepidi petti, ma lo mio inchiostro, ancorché oscuro, non ha tenebre da figurare simili orrori. Non si udiva scoppio di bombarda nimica, che in mille cuori non tremassero l’ anime, rìddotte in forse di fuggirsene; mentre i Fati minacciavano la Vita, l’ Honore, e le sostanze in un punto. O strani, & inaspettati emergenti ! Il terrore, alterava gl’ intelletti in maniera, che smarritasi la Pace domestica, principal gemma de’ popoli, ogn’ uno finistramente apprendendo, e figurandosi ne’ suoi delitrii il nimico dentro le mura, anzi pur dentro i più intimi penetrali, provava il male come presente; e moriva nella imaginatione della concetta miseria: apparecchiava ciascuno le favci al ferro, che già stimava sovrastarsi. Molte Donne, temendo la perdita dell’ Honestà, che suol esser preda del vittorioso Soldato, desideravano, e procuravano di morire: e mirando i figlivolini, & i Mariti, parevano escludere lo affannato spirito in un amaro singhiozzo. Ed ecco da quesle pur troppo efficaci cavse, cominciar le compiessioni ad alterarsi; e debilitato il color nativo, e perduti i placidi sonni, à generarsi cattivi sangui, facili à ricevere i pestilenti caratteri: onde mortalità insolita, venne à sminuire in gran numero i Cittadini; la quale havendo à prima faccia sembiante, e concetto dì febbre di mal costume, in breve con la moltitudine de’ languenti, con la brevità del male, e con la peculiarità delle circostanze, con formidabile certezza, si dicchiarò crudelissima Pesiilenza.

Non fu però così in chiaro, se prima havesse origine il male, ò tra le mura, ò nel Campo; mà è verisimile, che principiasse nello Esercito: conciosiache alla colluvie militare, partita massime di fresco dalla Germania, e da gli altri à lei contigui Paesi, è familiare simil morbo. Fosse dunque portata nella misera Italia ne gli arredi, ò nelle persone: ò fosse che i disagi del cibo, e la rea bevanda palustre ragionasserò nella Soldatesca, massime sotto Cielo diferente dal naturale, difficili, e mal soccorse infirmità, cui multiplicate morti succedessero; basta che multiplicando ì Cadaveri per le strade in gran copia, venne l’ aria à contaminarsi; onde poscia si dilatarono i seminarii evidenti della infettione, che somministrando à se stessa continuo fomite, e sempre in peggio alterando l’ aria, venne per lo commercio de’ Venti che l’ agitan di continuo, venne ( dico ) à communicar se stessa anco alla Citta, cagionando morbi, e morti.

Di questa guisa discorrevano ì più sensati, mentre dubìtavano altri, che in Milano per diabolici artificij, fosse stata la Pestilenza introdotta; perche alcuni malefici infettato havesser le Chiese, e gli altri luoghi più frequentati.

Il Bresciano fù il primo a sentire l’ orribil colpo, nella Giuridittione della Republica Veneta; onde Verona, si riempì di ragionevole timore, che per lo bisogno delle militie vedeva il comercio affatto ìmpossibile ad impedirsi.

Cesse il dubbio del perìcolo, alla presenza dell’ attuale flagello; quandoché venuto d’Asola di Bresciana, ò secondo altri, di Pontevico, un certo Francesco Cevolini, Soldato infermo, e presa Camera à pigione da una tal Lucretia di cognome Isolana, in Contrata dì San Salvatore in Corte Regia, ivi nel ristretto di cinque giorni circa li 20. di Marzo morì visitato da Adriano Grandi Medico di Collegio, che veramente non lo giudicò infermo di Pestilenza, ma poi maneggiate le di lui spoglie nelle hore medesime, dalla hospite Donna, e da certe sue fanciulle, quella, e queste in poche hore altresì infermarono, e spirarono. Corsero pari forte, Angela, e Lucietta Filette, & altre delle loro vicine, che le visitarono, e servirono nel male: in modo che gettatesi le Filette Madre, e figliuola à letto il Venerdì sera, la Domenica spirarono l’ anime: e nello stesso tempo tutti della Casa, al numero di sedeci si sentirono assalire da febbre con accidenti gravissimi, e trasmessi di publico ordine al Lazaretto ( mortone parte nella Casa) solo cinque ne sopravissero fra tutti. Onde queste morti quasi subite in un solo gruppo di Case, & in una sola Contrada, e con suppositione di manifesta communicanza, posero in grande spavento l’ Universale; in modo che gli Proveditori alla Sanità, invigilando al bene commune, fatta scielta d’ alcuni Medici, e Chirurgi, vollero che i loro Cadaveri fossero speculati, e riconosciuti, Diverse furono le opinioni; perche alcuni affermavano, altri negavano, altri dubitavano. Francesco Gratioli, Medico di Collegio, e Camillo Giordani Chirurgo, assertivamente conchiusero, esser quelle Femine morte di Pestilenza: massime che nell’ anguinaglia destra della fanciulla Isolana, apparve un livido tumoretto. Mà perche accade, che malvolontieri altri concluda nella propositìone assertiva del proprio, ò del commun danno; perciò dubitanti gli altri, fu appresso il Popolo così odiosa l’ affermativina depositione di questi che non solo fu stimata di soverchio facile, e temeraria, ma poco meno che con rischio delle persone, non caminassero per le vìe, essendo già per lo parer libero; e ingrato a gli animi, entrati in disgratia presso il volgo, che malagevolmente contener si poteva, di proverbiarli, e di pungerli con satirici motti: Ma le morti delle Filette, e di molti altri loro contigui habitanti, pur troppo accertarono gli ostinati, che la Pestilenza fosse entrata in Verona.

Non diede tempo à seminarii maligni, il publico provedimento, ma riddottosi il Magistrato alla Sanità, coll’ intervento di Lorenzo Foscarini, e di Sebastiano Bernardo, Rettori all’ hora Vigilantissimi, cominciarono à deliberare ciò, che potess’ essere di giovamento in emergente così duro, e calamitoso.

La poca cura de’ Proveditori alla Sanità, del 1575. appena lasciato haveva un vestigio di raccordanza ne gli atti della Cancellarla, in proposito del Contagio di quell’ anno: onde non restava lume per rimediare con l’ essempio; che perciò regolandosi al dettame della propria prudenza, & all’ esperienze per univerfale cognitione imbevute, fu subito imposto, che fosser chiuse le Case infette, sequestrate le Persone, abbrucciate le masseritie sospette.

Questa in apparenza rigorosa esecutione, fu diversamente sentìta per la Città; perche il volgo facile à parlar licentiosamente, cavillava questa severità, come che soverchio timore imprimer potesse ne gli animi, pur troppo da altri motivi feriti, e contaminati.

Altri, più sensatamente stimarono, che ottimo consiglio fosse di resistere à primi incontri, di sì formidabil nimico. Tanto più che non davan tempo le successive infettioni, e morti, al dubbio se ‘l male fosse Pestilente, ò non fosse: attesoche si scopriva, che passava il malore evidentemente di persona in persona; onde in breve furono ( non ostante la pubblica vigilanza ) appestate moltissime Case, la cui communione non era difficile à Penetrarsi. Mà perche la moltitudine genera confusione; e perche questi ordini portan con loro la correlatione di molti, & importanti respetti, cercando ogn’ uno di celar il male al possibile, temendo d’ esser diviso da’ familiari, e di vedere il meglio delle proprie sostanze dat’ alle fiamme; perciò dico, mancando la gradatione espressa, da questo à quell’ altro infetto, e multiplicando i feriti, venne il progresso del Contagio si come à farsi più universale, così à nascondere i passi da questa à quella persona, o Casa.

Erasi in questa guisa di maniera avanzata la Pestilenza nel progresso d’ Aprile nella Città, che contaminate anco le più disgiunte Contrade, si vedeva apertamente il rischio commune; onde spirando ogni cosa orrore, rassomigliavano i Cittadini, tante statue di marmo, atteggiate dalla paura. Rìddotte le Vite à pericoli piu evidenti, venivano le sostanze a noia; anzi che la frequenza de’ funerali, e la vista di qualche corpo insepolto, faceva odiosa la stessa vita.

Ma gigli, e rose erano state le sciagure dell’ Aprile: conciosiache portò il Maggio, in vece d’ amori, e d’ allegrezze, i più mesti, e lagrimosi spettacoli, che mover possano, anco ne’ barbari compassione. S’attaccava il pestilente incendio ne’ corpi, in quella guisa, che ne gli aridi, & unti legni sogliono attacarsi le fiamme , ardendo i vicini tronchi. Non si dolevano ì genitori, della perdita della prole, perche terminava la Vita di questi parimente, e di quelli, in hore brevissime: restando appena d’ una famiglia, chi raccontasse le altrui morti, non che chi potesse chiuder gli occhi a’ predesonti. Ed ecco, cessar le pompe delle esequie non solo, mà anco le cerimonie Ecclesiastiche: tacevano i bronzi queruli insofficienti al dar i soliti segni, del cadavero da interrarsi. Le famiglie Sacre, recusavano di accompagnare i feretri, che in loro chiudevano col Morto, la Morte: onde negletta la Dignità de’ Soggetti, si portavano tacitamente i corrotti corpi più tosto à publici, che à privatì sepolchri. Non si trovana sì ardito cuore, che volesse porger all’ infermo la medicina, ò l’ alimento ; né preparar le membra gelide col lavacro, ò con le vesti, per l’ honore della tomba. Sino le lagrime, che suol trarre la Pietà da gli occhi de’ più congiunti, stavano agghiacciate dentro i cuori, secche insieme l’ vrne de gli occhi. Non dava luogo la Morte, vivamente espressa sotto le viste, ad altri affetti, che à la Paura, che moveva anco gli animi più costanti; e si come impetuoso torrente rompe gli argini, ancorché forti, così restavano spezzati gli ostacoli delle publiche provisioni, e delle private, dalla violenza del pestilente nimico.

Volavano le rie novelle del mortifero morbo, che andava, come falce in prato, recidendo miseramente le vite d’ innumerabili; quando la Signoria Serenissima, non meno Madre, che Regina de’ fedelissimi Vassallì, girando l’occhio pietoso, e provido, deliberò, à bisogno estraordinario portar soccorfo estraordinario. La onde in pieno Senato, fu fatta la elettione laudabilissima di Aloise Vallaresso, Cavaliero, Senator grande, chiaro per nascita, per fortune, mà più per le gravi cariche, sostenute sempre con applauso, e con gloria; massime corsi tutti i gradi del Consiglio, & impiegatosi in Ambasciarie gravissime, & in importanti cariche militari; sempre con lode proportionata alla pienezza del dì lui Valore, Sapienza, & Integrità.

Eletto adunque, Personaggio così conspicuo dalla Republica Veneta, alla spinosissiima Carica, di Proveditore di qua dal Mincio, per la publica Sanità; in tempo che non solo faceva le più spaventose prove il Contagio, mà in tempo anco, che Marte influiva strage miseranda con l’ armi, spirando Honore, e Maestà, determinò di venire à ripporsi dentro Verona, sprezzando la sicurezza de’ Luoghi sani, dove poteva porsi a suo beneplacito, quando havesse maggiormente stimato la propria salute, che la publica.

Era stato chiamato al di Lui servigio, Andrea Idro Bresciano, per Cancelliero; persona di chiara sofficienza, e fede, nel publica importantissimo ministerio. Questi, con indefessa opera attese poi, secondando i cenni del Signore, con ogni spirito alla salute universale, mentre non meno con ardore, & applicatione, l’ ordinario Magistrato in tanto; preveniva con le possibili provisioni, la venuta del Vallaresso, aspettato generalmente con isperanze molto grandi, atteso il grido della sua grave, e risoluta maniera nel comandare, e far esequire gli ordini neccessarij. Si come anco i publici consueti Rappresentanti, nel commun rischio vigilantissimi, non risparmiavano loro stessi, mà sopraintendendo, e soccorrendo, la dove la urgenza chiamava l’ aiuto loro, si mostravano di pari affettuosi, e prudenti.

Succcesse il dì che precede la Solennità del Corpo di Christo, il conflitto di Villabona, che dal grido universale, fù raccontato in questa maniera. S’ erano messe alcune Venete Militie, in un posto in cotesta Villa: non però si puote penetrare con che ordine, ò per qual fine. Mentre colà si trattenevano con l’ armi alla mano, e con molto bella ordinanza, mandarono gl’ Imperiali à far loro intendere, che levar indi si dovessero, attesoche era il loco sottoposto alla Cesarea giuridizione: I nostri, ricusando di ubbidire ad altro comando, che de’ propri Capi di Guerra, negarono di farlo; e per conseguenza si allestirono al combattere, bisognando. Con pari prontezza l’ Essercito opposto sì apparecchio per far che indi si togliessero: e così approssimatesi animosamente le schiere, concorrendo il grosso de gli Alemani, contro i pochi nostri; la fortuna della guerra, ch’ è cieca, e dubbia, portò l’ evento meno improspero dalla parte de gl’ Imperiali; perduti ben si molti di loro, ma moltissimi de’ nostri. Quello che diede alle militie di Cesare gran vantaggio, fù, l’ esser da esse occultamente condotti per fianco à nostri alcuni pezzi di bombarde; le quali inaspettatamente scoppiando, e ferendo, sbarattarono le squadre, e vi cagionarono disordine. Si perdettero Soldati Corsi in gran numero, gente prode, e che sempre senza voltar la faccia, sostenne l’impeto, e la carica dell’ armi contrarie. Le Cernide, ( altretanto vili, e codarde avvezze solo a volger le glebe con zappe, e marre, tremando al tuono, & al fulmine de’ moriferi bronzi ) ò non si mossero, ò si mossero solo à fuggire; dando le spalle alle Bandiere, per quanto i Capi coraggiosi con lo essempio le invitassero, e con le parole le stimolassero al resistere. Monsignor Duca di Candalle, notabilmente segnalò se medesimo, fatto argine col proprio petto, à quel gran torrente, che innondava. Convenne finalmente ceder à chi disponeva la Vittoria più per questa parte, che per quella. Ed ecco; abbandonata la dissciplina militare da’ più, cercando ogn’ uno il proprio scampo, volger le redini, ò ‘l piede, verso Valezo. La polvere, che salendo fino alle nuvole, rendeva l’ aria densa, & orrida, serviva d’infausto araldo, per notificare qualche evento sinistro, à quelli che da’ Posti, e dal Castello miravano: onde prese da i piu coraggiosi l’ armi alla mano, e studiando gli altri di porre le sostanze, e la vita in salvo; sopravenuti anhelando i piu lievi al corso, parte feriti, e parte trafitti dal timore, facendo anco maggior il danno di quello che in fatti era; & amplificando il numero, e la virtù del nimico, per discolpa della propria codardia, così ne furono mal impressi i maggior Capi, che stabilito ( per quanto dicessero in contrario alcuni bravissimi Capitani, e Collonelli ) di lasciare così importanti, & dispendiosi Posti, furono ìmmediatamente inviate le Soldatesche, parte verso Peschiera, gelosissima Piazza, e parte verso Verona. Io racconto il fatto, con la bocca del popolo, perche la privata prudenza, non può internarsi ne’ segreti politici, nè anco inferendo da gli eventi: è di pari pazza, e sacrilega, quella mente del suddito, che s’arroga di penetrare i segreti del Principe; i quali si come sono independenti, cosi tengono in loro misteri altissimi, & inaccessibili. Basta che in fatto, le disordinate, e forse atterrite Militie, sparse infelicemente per la Campagna, quasi da molte linee tendenti al centro, si conducevano alla Città ( riddottesi altre in Peschiera, con qualche sembianza di ritirata militare, calcando l’ orme, e seguendo i comandi de’ maggior Capi. ) Era cosa doppiamente funesta, il veder nella Città, insieme ingombre le vie di cadaveri, saettati dalla Peste; e di Soldati mal acconci dal nimico. Almeno i primi non inorridivano con la vista del Sangue, Sopportata senza ribrezzo, e contaminatione da pochi cuori: Ma i Soldati fuggitivi, parte ravvolta la testa in sanguigni cenci, parte mostrando i volti svisati, le mani tronche, i fianchi feriti, le gambe guaste, facevano sopra le carra in gran cumuli e attraverso de’ giumenti, la più trista, e la più sconcertata armonia di angoscie, & di spaventi, che sappia una mente per lungo habito affannata, rappresentarsi nelle applicatìoni de suoi oggetti più avversi, e più dolorosi.

Questi duri, & inopinati Spettacoli, inamarirono il giorno per altro delitioso, e dedito alla pietà publica, del Corpo di Christo, Signor Nostro: conciosiache, essendo nella universal Processione incaminati con l’assistenza di tutta la Nobiltà, gli publici Rappresentanti, vennero le rie novelle, de’ nostri rotti, e quello che fu di maggior dolore, de’ Posti anco di Valezo, si facilmente abbandonati. Sebastiano Bernardo, Capitanio, Senatore di gran giuditio, & esperienza, & alla cui carica particolarmente questi emergenti si aspettavano, abbandonata ogni altra cura, si applicò alle bisognose fontioni; havendo sempre alla persona Leonardo Conte Martinengo Governatore, il quale avegnache in quel tempo conualescente, con incessante opera, travagliò giorno, e notte. Si attese à riveder le Fortezze, a raddoppiar i Presidij, & ad ogn’ altro opportuno impiego, in quella occorrenza; sopra ogni altro adoperandosi Michiel Priuli, Cavaliero, Proveditore, Soggetto di qualità Regie, e Senatore Eminente. Tutta la notte, fu universalmente spesa in lacrime, & in pensieri. Già Mantova, e la sua amicitia, pareano ad alcuni troppo vicine: Facile è il proseguir la Vittoria incominciata: e tanto più ogn’ un temeva, quanto che la Città era esausta di Cittadini; le Militie, parte perdute, parte disperse: i Capi di Guerra più conspicui, ritirati, e lontani. Le monitioni non forse così abbondanti. Lodovico della Torre Marchese, e Giulio Verità Conte, allhora Proveditori di Commune, la stessa mattina del Corpo di Christo, con buon seguito di Nobiltà, furono dagli Rappresentanti publici, ad attestar loro, che per gli presenti disastri, non era punto ne’ Cittadini rimessa la memoria del loro debito verso il Principe Serenissimo, nè infiacchita punto la costanza della lor fede inalterabile: onde il dopo pranso, di ordine del Foscarini, del Bernardo, e del Cavalier Priuli, convocato il Consiglio delli Dodeci, furono rese loro gratie delle esibitioni della mattina, e si passò à terminaitione di divider il popolo in molte parti, sotto Capi Cittadini, con assignamento di Piazze d’ armi, per potersi unire, & accorrere alla diffesa della Città in occorrenza. Appena l’ Aurora, con le dolcezze de suoi albòri, racchiudeva qualche occhio, che la notte era stato sempre aperto, quando sbigottite, e querule voci, si udirono sotto le mura gridando iterar più volte, ecco il nemico, ecco il nemico. Ecco il nemico, ecco il nemico, ripigliarono le guardie sopra le mura; onde Eco così sinistro, andò riflettendo, & articolando in un momento, per le strade tutte, e per le Case la vicinanza de gli Imperiali. Sin tanto che portatosi à gli orecchi del Capitano Bernardo, e de gli altri Officiali, ogn’ uno si accinse à difendere la Giuriditione del Principe, la Pudicitia delle Donne, la vita, e le sostanze con ogni ardire. In tanto con insolito orrore; anzi con non mai piu udito motivo, suonava il più alto, e piu grave Bronzo della Città, à spessi tocchi, invitando le mani all’ armi. O raccordanza dolorosa ! Nella grandezza del pericolo, stava dubbio l’ animo, d’applicarsi à questa, ò à quella operatione. Lo interesse publico, chiamava ogn’ uno alla muraglia, per ribbattere l’ardire Alemano, il privato persuadeva a trattenersi nella propria habitatione, temendo i più sani ingegni, più tosto la licenza de’ Soldati di dentro, che degli esterni: gettatesi le mogliere, e le figlivole al collo de’ Mariti, e de’ Padri, con strida mortali, e con isqualidezza di meze vive, perche non volessero abbandonarle. O cimenti d’ affetti estremi ! Vinceva nondimeno nella maggior parte il publico zelo: conciosiache il Principe, deve esser più à cuore al suddito, che se medesimo: in breve dunque fù cosi ampio il concorso di persone armate, e massime Nobili sopra le mura, che parve à Rappresentanti publici, cosa di pari degna, e maravigliosa, come ne’ communi disastri, e perdute nella Pestilenza tante persone, si potesse in un momento ragunare tanto aiuto: che perciò in pieno consiglio, con affetti di tenerezza, lodarono la più che mai limpida, e suiscerata fedeltà Veronese. Non però ( come fù dubbio universale ) si approssimarono gli Alemani alle mura; che anzi, ritenutosi il grosso à suoi Posti primi, e ne’ presi nuovamente, solo alcune Truppe di Crovati, e d’ altri, si diedero à dirubbare il paese; con rapine, stupri, violenze, uccisioni così barbare, che non perdonando a sesso, ó ad età anzi pur nè anco a Chiese, ò à sacri Ministri mostrarono questa Provincia, esser veramente caduta nella mano di Dio vivente.

La moltitudine dunque della più vile fuggitiva brigata, di maniera haveva la Città riempito, che multiplicate le sordidezze, e più che mai per la paura dell’ armi credute all’hora troppo vicine, alterati i sangui, cominciò il morbo à rinforzar tanta violenza ne’ suoi progressi, che cadendo i morti non solo per le Case, mà per le strade, pareva disperato il modo, non solo di resistere all’ impeto della Pestilenza, ma altresi di nascondere à gli occhi delli afflitti viventi la farragine di cadaveri. Si erano moltissimi Cittadini, per meglio salvarsi dal Contagio, portati alle proprie Ville, dove è più facile di schivare il commercio. Tutti questi ( diffusi per lo Contado di quà dal fiume gli Alemani ) si levarono dalle Ville, e si riddussero dentro: mostrando hormai di nulla stimare il morbo, in riguardo alle consequenze misere della Guerra.

Pose freno à si fatti disordini ( perche non solo concorrevano i Cittadini, mà tutte le persone rurali ancora ) la publica providenza: Venuto subito dopo lo accidente di Villabona, il Vallaresso in Verona; e tra le prime fontioni, comandò, che le persone rurali, dovessero ritornar à loro posti; perche non accrescesse la moltitudine il fomite pestilente, essendo già riddotti il numero delle anime della Città, fino ad ottanta e più mille: in modo che sotto gli nove Giugno, arrivò il numero de’ morti, à ducento sei; e nel dì medesimo, settanduo ne furno mandati feriti, fuor delle mura.

Comandò indi, che fossero convocati, gli Medici, e gli Chirurghi tutti della Città, assistendo à Lui, gli duo publici ordinarij Rappresentanti, e gli Proveditori consueti alla Sanità. Espose, con ristrette, mà gravissime parole, ch’ era mandato dal Serenissimo Principe, per sollevare in quanto fosse possibile, la Città dalla Peste: essere perciò neccessaria trà le prime cose, la confessione de’ Medici, se il male era assolutamente Pestifero, quandoché non ostante la mortalità notabile, alcuno tuttavia metteva questa verità in dubbio: attribuendo molti la cagione delle quasi subite, e multiplicate morti, à Vermini, che offendessero le interiora, e mandassero velenosi aliti al cuore; e volendo altri, che piu tosto fossero maligne febbri, che pestilenti. Quasi non bastavano i tumori, detti volgarmente ghiandusse, a persuadere i Chirurghi, e i Medici tutti, e tanto men gli altri, che il male fosse Contagioso. .

Per soddifare al quesito, & ubbidire al comando del Vallaresso; fù dìscusso in brevi parole, alla presenza del Magistrato; onde Alessandro Lisca, Dottor Medico di Collegio, Gentilhuomo sensato, e grave & allhora Priore, rappresentando l’ università de’ Medici, reiette l’ openioni dubbie d’alcuni, rispose, che pur troppa era Pestilenza, quella che andava la Città consumando. Soggiunse il Proveditor Vallaresso, che dunque, tenendosi communemente la parte affermativa, dovesse il Collegio somministrare numero di Periti, così Medici, come Chirurghi, che bastassero à supplire al bisogno publico sì per essercitarsi nella Città, come per adoperarsi nel Lazaretto. Fece il Lisca riverente istanza di poche hore, per deliberare concertatamente, quali Medici, e quali Chirurghi servir dovessero: & impetratala, convocò tutti gli Medici, e gli Chirurghi, esponendo loro il comando del Principe, la neccessità, & equità dell’ esequirlo; e la impossibilità del sottrahersi da simil carica. Corse un timor gelido, per l’ ossa di ciascheduno; vedendosi presentare ò la spada dello sdegno del Magistrato, ò ‘l veleno del Contagio. Non era frà Medici, così risoluto cuore, che piegasse agevolmente al pericoloso impiego: onde mirandosi l’ uno l’ altro, e l’ altro l’ uno, e manifestando la renitenza del proprio animo, & al possibile adducendo scuse, & impedimenti, convenne proppor le sorti. Quando, mentre niuno ciò immaginava, tre de’ più risoluti petti, ò si rappresentasse loro la faccia del pericolo, e della morte, manco orrida; o ‘l desiderio della Gloria gli stimolasse, acconsentirono di proprio moto, di dar i lor nomi, e di sottoporsi al peso: supposta però la conditione, di non avvicinarsi à gli infetti, mà solo di lontano prescriver loro, dopò una essatta bastevole informatione, le neccessarie cose per la Salute; che tale fu dichiarata la pia, e discreta intentione del Magistrato. Furono gli tre, Francesco Gratioli, Adriano Grandi, Oratio Gratiani. Per lo Lazaretto, fù deputato Ottavio Franchini Medico, e Camillo Giordani Chirurgo, assegnato à ciascun di essi, ragionevle stipendio. .

Ma perche miseramente multiplicava la strage; e scarso riusciva il numero di tre Medici per la Città; fu ultimato per parte del Vallaresso, che si dovessero tre altri Medici eleggere, i quali, come i primi s’ impiegassero nel soccorrere à gl’ infetti. Portava questa elettione, le sue difficoltà con lei; attesoche de’ Medici, altri erano troppo giovani, & inesperti; altri, attempati, & inabili alle fatiche; altri soggetti al seruitio di Case, e di Monasterij sani; che ricusavano di ammettere Medici destinati à curar il Morbo. Tuttavolta, conseguenze, che odoravano il privato, cessero al bisogno publico; & all’ imperio del Magistrato; onde furono imbossolati molti nomi di Medici, & vfcirono Gioan Giacomo del Grande, Francesco Pona, e Francesco Franco.

In tale consesso, che anco il Donati, Medico laureato di fresco: il quale sopragiunto da improviso accidente, con una pallidezza di morto, rovinò su’ piedi del sedente vicino à lui. Cottesto spettacolo, in tempo che la Pestilenza rappresentava le sue Tragedie, intimorì di modo gli astanti, che temendo ogn’ uno à se stesso, fù il primo il Pona ad uscire del Collegio, e fù seguito da qualch’altro. Il giorno dopò, seguì la morte del Donati, con livido tumore nel collo.

In questi ardui, & impetuosi emergenti, pareva ogn’ animo costernato: mà non già ricredeva punto l’ intrepido cuore del Cavalier Vallaresso; il quale, trasformato nelle Commissioni del Serenissimo Principe, e nella cura del ben publico; raccolto tutto se medesimo, per applicare le provisioni competenti al bisogno, con rigorosi Editti commise, che infallibilmente ogn’ infetto, di qual si volesse conditione, fosse immediate reciso dal confortio de’ sani, e mandato al Lazaretto. E perche simil luogo, e nome, così abborrito non fosse, instituì per lo governo di quello ottime regole; affineche altri volontieri eleggesse di farsi più tosto colà curare, che morir nelle proprie Case, senza socorfo.

E veramente lo essempio di Gentilhuomini, e d’ altre benestanti persone, che ( oltre l’ incorrere nella indignatione del Magistrato, e nelle gravi pene imposte ) erano pericolate senza l’ aiuto d’ un sorso d’ acqua, haveva mosso i più savij, tantosto che si sentivano dalla pestilente saetta offesi, à farsi condurre al Lazaretto, dove non mancavano in gran parte gli aiuti più bisognosi, e dove non pochi ricuperavano la salute. Che perciò, non solo Cittadini di degna nascita, e di commode facoltà, si faceano colà trasmettere, mà Donne anco di nobil sangue, e di chiara pudicitia, si eleggevano, più tosto che morire senza la bisognosa aita nella lor Casa, di condursi la dove Medici, e rimedij non mancavano.

La maniera del trasferire al Lazaretto gl’ infermi, era con barche à ciò deputate: concorrevano da tutte le parti della Città, persone infette, d’ ogni sesso d’ ogni età, d’ ogni conditione; portate per lo più sopra que’ familiari sedili, ch’ usan le Donne: onde sù la strada, ch’ è alla Chiesa del Crocifisso più vicina, si vedevano alle hore prefisse ragunate le caterue de’ feriti; accompagnate da’ più teneri congiunti, che lagrimando prendeano gli ultimi congedi; e nel seno tale del figliuolo, ò della figliuola; tale del fratello, ò della sorella versavano quel poco, ò quel molto oro, che potesse à se più che à gli altri, allettare la carità de’ ministri. Alcuni morivano dalla Casa alla barca; altri nella barca tantosto che dentro saliti erano; altri semiviui arrivauano al loco publico.

Ma non solo la Povertà, che suol essere il bersaglio de gl’ infortunij, sottoposta si vedeva a simil sciagure; perche anco molti de’ più agiati, e facoltosi Cittadini, erano sforzati da lor medesimi porsi in camino, per trasferirsi alle barche, onde passar potessero al loco deputato dalla publica cura; mancando genti, che potessero loro mano adiutrice, perche allhora venuta meno la forza all’ oro, ricusavano anco gl’ infimi della plebe, di compromettere per guadagno la vita: Onde occorreva sovente, che non bastando le gambe fiacche à regger il peso della persona, fossero neccessitati i miseri, in guise strane, di caminarsene carponi; ad ogni tre passi riposando, e spesso tra gli aneliti ultimi, svaporando le anime. In que’ passi vaccillanti; in quella stentata maniera dell’ avanzarsi, che portava alla morte, sù le speranze della vita, quelli che abbandonati da’ propri, stimavano trovar pietà da Ministri deputati dal publico, avveniva, che assalito l’ egro da sete ardente, con appassionate grida invocava l’ acque dalla humanità di chi lo udiva. Ma se la compassione di qualche prossimo si piegava ad esaudire le affannose dimande, ardiva à pena in vase vile di somministrar la bevanda con mano timida, turate le nari, e ad altra parte converso il viso; e con atti di spavento, uscendo in un punto dalla Casa, e nella medesima riponendosi: accrescevasi nel Caritativo la Paura; perche appena gustava del liquore l’ infermo, che quasi bevuto havesse acque di Colco, tosto con accidenti mortiferi sconuolgendosi per la terra, escludeva lo spirito.

Nè solo Huomini avvezzi à gli agi, & alle delitie, ridotti si vedevano à segno sì sventurato; ma nobili Donne, e che per altro si sarebbero sdegnate di uscire da’ limitari, senza la comìtiva delle serventi, allhora, sprezzati i fasti, con la chioma negletta, e la guancia tinta in pallidezza di morte, nella più abietta, e male assestata gonna, discinte, e scalze, senza il decoro della nascita, o del connubio, per essere da’ prossimi derelitte, s’incaminavano à piedi verso le infette navi; e bene spesso mancando loro per lo viaggio la lena, accosciate si lasciavano cadere; mentre la morte, rubbando loro dieci, ò dodeci passi che rimanevano, ingannata la speranza del vivere, le stendeva per le strade, prostituendo alla più infima sorte di sepoltura il cadavero, che sperò la marmorea tomba del Conforte, è de’ Genitori.

La meno sventurata Fortuna era di quelle Matrone, che per privilegiato evento intatte dalla Pestilenza, haveano veduto le proprie ancelle, & i serventi, ò morirsi sotto gli occhi, ò mandati al Lazaretto: e che perciò da dura neccessità si vedeano astringere, a’ più abietti, e laidi seruitii della Cucina; dell’ attinger da’ pozzi l’ acque, e di procurare con la scopa la bisognosa mondezza à luoghi habitati: Onde à Mariti anco più nobili e generosi, avvezzi ad alti maneggi, conveniva di portare la metà dell’ insolito peso, per non vederci languir sotto la compagna: perche cercavasi in darno, con una moneta d’ oro, comperarsi cadauna delle soddette vili sì, ma neccessarie fontioni, ò mancati, ò infetti i plebei.

Ma tornando al Lazaretto, chi sà il numero delle foglie d’ una gran selva, sà il numero de’ dolori, e delle miserie di quella infelice ragunanza. La vergine tutt’ i suoi anni custodita, con incredibile riserva, dalla Madre gelosa, era ivi non solo astretta di vedersi sotto gli occhi, ma di trovarsi sotto le mani de’ Chirurghi, che per necessario termine, doveano cercarla, nelle più celate parti: onde moriva prima per la forza della confusione, e del rossore, che del male. Il fanciullo, avvezza per lungo uso, alle lusinghe della Madre, habituata à somministrar alla sua bocca, massime in tempo d’ infermità, gli alimenti, riddotto allhora sotto la cura di ruvidi, e molto impediti serventi, languiva, e svaniva di dolore; con nausea de’ cibi, ben si salutari, mà semplici. Il Padre, e Marito, sospirava la Consorte lontana, e la cara prole; allaquale temeva haver lasciato la metà della propria Morte. O afflittioni, ò tormenti ! Quelli erano i manco miseri, cui lasciava il male, meno disoccupato il discorso, perche la riflessione, sopra l’ essere di allhora, era troppo acerba. Questi però aummentavano in notabil modo, lo spavento de gli altri: conciosiache delirando, faceano effetti i più miserabili, che possano satiare la crudeltà d’ un Licaone ò d’uno Atrèo. Alcuni, rotte le custodie, con precipitoso corso, si lanciavano nel fiume: altri, con feroce moto, percuoteano del capo alle pietre; e con larga effusion di sangue, seminavano le cervella. Inorridisce la penna, alla raccordanza di memorie così funeste. Non bastava al male d’ impossessarsi del corpo, che ardiva anco d’ assalire, e d’ abbattere le facoltà dell’ Anima principali. Mà quello che colmava la misura capacissima delle angoscie inenarrabili, era, veder il Medico, cader morto sopra l’ infermo; e quello che poco prima s’ era affaticato in persuadere il moribondo alla costanza, aprir la bocca d’ improviso à gli eftremi siati.

Riparava, il Magistrato, al possibile, così misere perdite: & invigilando in un tempo stesso, al sufficiente provedimento delli poveri della Città, si prohibivano le Morti, che non portate dalla Peste, accadevano per lo disagio.

Oltre tante consequenze duramente sinistre, occorse anco, che in questo tempo perduti nella peste parimente tutti gli Fornari, si ridducesse la Città in pericolo manifesto di morirsi per la fame. Accidente che preveduto dalla prudenza del Podestà Foscarini, lo fece risolvere à chiamar Fornari di Venetia; mà mentre questi dimoravano, sì trovò la Città negli estremi patitimenti: non solo nella povertà, ma etiandio nelle Case de’ benestanti, avvezzi à far pane per la famiglia; percioche le seruitù ò morte, ò escluse dalle Case per la infettione, toglievano questa ordinaria commodità: Fu consultato del rimedio; e dopò proposti diversi partiti ò absurdi, ò impossibili, ò troppo difficili, raccordò il Proveditore della Torre, che si pregassero i Monasterii delle Monache, i quali poco havevano patito d’ infettione, à far il pane da vendere nelle Piazze, sommmistrata loro dal publico la farina; rimedio che riuscì felice, fin tanto che fu da Venetia mandato il bisognoso numero di Fornari.

Sotto gli dieci di Giugno, furono publicati, alcuni Ordini del Cavalier Vallaresso, così in proposito di Medici, e di Chirurghi, per lo servitio della Città, come per lo Lazaretto ancora: Obligando diverse sorti di persone, alle denontie di tutti gl’ infetti; e fatto pene gravissime, à chiunque ardisse occultar il morbo. Fu ordinato con miglior regola, il modo di condurre i feriti fuori; di chiudere, e purificar le Case; e di purgare le robbe infette. Furono commesse le denontie de’ Morti, sotto pene gravissime; e prohibite le sepolture in Città, eccetto à gli benestanti, c’havessero proprio avello. Si providde in proposito delle barche per servigio del Lazaretto, prohibendo loro ogn’ altro impiego. Così in materia di levare le immondizie della Città. Furono anco intimati publici fuochi, per le Contrade, affine di purgar l’ aria aggiungendo à queste, altre opportune commissioni.

Quasi nel medesimo tempo, uscirono Ordini, e comandi in proposito di Peste per lo Territorio; versanti circa la cognition de gl’ infetti, le denontie, li sequestri, le sepolture, le provisioni per le Case sospette, le prohibitioni del mercantare robbe di esse. Furono anco ordinate le Elemosine per gli poveri sequestrati; Prohibito il commercio di Cingare per le Terre; rimmossi (con ogni buon termine di trattamento) i forastieri mendici da’ Communi; & eletti deputati, per l’ essecutione di tali Ordini.

Si avanzava tuttavia la strage, che faceva la Pestilenza, perche dalli dieci, alli sedeci, crebbe il numero de’ Morti dalli ducentosei, a’ più di trecento il giorno; espressamente perdutisi di Contagio, più che gli duo terzi.

Furono proposti, e maneggiati in que’ giorni due negotij rilevantissimi per la publica salute; l’ uno riguardava le regole per lo Territorio; l’ altro toccava alla Civile preservatione. Il rimediare alla infettione del Territorio, si come pareva impossibile per la ampiezza di esso, così era sopramodo opportuno, anzi neccessario: conciosiache, reietti i Forastieri dalla Città, & ammessi nel Territorio, era una cautela ridicola, e frustatoria, venendo poi giornalmente i rurali dentro, ne’ quali poteva entrare la communicata infettione. Propose dunque Lodovico della Torre, Marchese, Proveditore di quel tempo, & uno de’ più degni soggetti della Città, un facile, e prudente aviso, per isfuggire i disordini: e fù, che intimate pene gravissime à chiunque ricettasse nel Territorio persone esterne, restassero solo alcune poche hosterie, disposte per ragionevoli intervalli, nelle quali ricettar si potessero i forastieri, che venissero con autentiche fedi di luogo sano: poiche in tal maniera, non si sarebbero gli stranieri posti in via, senza fedi di Sanità, sicuri che fosse per esser loro prohibito l’hospitio. Versava l’ altro consiglio, proposto dal Marchese medesimo, circa la separatione de’ mendicanti dalla Città; come che sia gente simile, per la sozzura, e per lo cattivo temperamento, adequata essa per l’ incendio della Peste: che perciò, convocatili tutti, fossero i nativi della Città, raccolti nell’ Hospitale hormai vuoto de’ Mendicanti, e tutti gli esteri, con una buona Elemosina, da raccogliersi per publica contributione, licentiati fuori della Città, & accompagnati da publici ministri per certo spacio. Cadde, non la stima, e la bontà della parte posta dal Marchese Proveditone, che fù abbracciata, e sentita universalmente, mà si ben l’effetto, per gli emergenti della Guerra, che à se chiamavano gli animi, e le fontioni. Il cimento de grandi animi son gli accidenti, massime funesti, ne’ quali Huom può mostrare la costanza dell’ animo, & insieme l’ attitudine a’ maneggi. Cosi al Marchese Lodovico, aprirono i tempi molto commodo spiraglio, per mostrare se medesimo: quandoche dal primo di Aprile, fino al primo d’ Ottobre, semestre della sua carica di Proveditor di Commune, passarono gli più ardui, gravi, e laboriosi accidenti, c’ habbia mai provato la Città nostra: verso la quale esso con intrepida, & indefessa opera, mostrò affetto intensissimo, travagliando in diverse azioni tutte gravissime; massime rimaso privo del Proveditore Collega, che fù Giulio Verità Conte, morto di Contagio; & assistendo anco chiamato nella Consulta di Sanità frequentemente al Cavaliero Vallaresso.

Morirono in poche hore quattro Medici; Francesco Gratioli; Adriano Grandi; & Oratio Gratiani. Il Grandi in particolare, giovine d’altissima aspettatione, accorto Filosofo, leggiadro Poeta, Academico Filarmonico. Et non guari dopo, morì anco Claudio Giuliari, Medico di soda prattica, e de’ più Vecchi del Collegio. Si come non molto prima, erano mancati altri Medici principali; Gioan Battista Pozzo, huomo di gran dottrina, e trà primi Medici della nostra Città: Ottavio Brenzoni di bontà conspicua, di soavissimi costumi, gran Medico e dottissimo Astrologo. Alessandro Peccana, anch’ egli di bella eruditione dotato. Morirono anco Gierolamo Massaroli, e Francesco Franco.

Alessandro Lisca, per indispositione propria, cessò dalle Mediche pratiche; à gran fatica sopravanzato dalla Morte della Consorte, e della prole. Giulio Pozzo, Medico di settantacinque anni, esente hormai per consuetudine dalle fontioni, si ritirò a suoi poderi. Francesco Magno attese à impiegarsi nel soccorso del publico; avegnache senza obligo peculiare; ne forse senz esser à parte del commune malore.

Leonardo Todesco, Canonico, e Medico, aiutando poveri, sovvenendo parenti, e in particolare soccorrendo Religiosi, arrischiò in guisa se medesimo, che contratto il morbo, fù in forse di lasciarui la vita, ma Iddio, per conseruar forse così rara gemma alla Patria, e un tanto decoro alle lettere, lo satuò. Due soli Medici, con essatta circospettione guardarono lor medesimi. Fu l’ uno, Benedetto Drago, Medico principale, chiaro per eloquenza, dottrina, e fortuna; il quale di rado uscì della propria Casa; non così guardingo però, che talvolta non s’ accostasse à letti di feriti di Pestilenza. L’ altro, fu Francesco Pona, che stabilitosi di sprezzar l’ oro, e di posporre alla propria vita, e famiglia, ogn’ altro humano rispetto ( supposta la clemenza del Magistrato, che con pietà, e senno, prevedendo, e provedendo, voleva pur alla Patria serbare fuor di pericolo qualche Medico ) si contenne dentro la propria Casa, dal mezo Giugno, fino per tutto Agosto, immobile ad ogni machina, che havesse potuto smoverlo dall’ indurato proponimento. Osservo, che di tanti Fisici, che si perdettero, quelli più facili furono à porsi in rischio, ch’ erano senza prole. Riusciva all’ Huomo formidabile la rifflessione di espor non solo se stesso, avvicinandosi a gl’ infetti, mà di poter essere transmissore della Morte nella cara discendenza, estinguendo se medesimo, e la propria imagine, ne’ figliuoli; che perciò gli ammogliati, e i più copiosi di prole, con maggior ribbrezzo, e ritrosia, fi mostravano renitenti alle cure, ahi pur troppo sfortunate, e pericolose.

Questi duo però, servivano al publico incessantemente col consiglio, distribuito ad ogni benché popolare, e minimo infermo; udendo ciascuno in ragionevole distanza, e somministrando carte, per trasferire i languenti, al loco fuori della Città. Spese anco il Pona qualche stilla d’inchiostro, in dare al publico la maniera del preseruarsi dalla Peste, mentre s’ era tuttavia in tempo; e poi di curarla ne’ più pericolosi incontri del male.

Nelle morti di tanti Medici, caddero le speranze, e le vite di mille infermi, e caddero, con non men subito e fiero eccidio, i Chirurghi nel maggior numero. Servirà per documento a’ venturi, che le poma d’ Ambra, e d’ altre odorate materie ( delle quali ciascun di questi era ben fornito ) son ridicole armature, contra nimico sì potente, com’ è la Peste. La Città di Lucca, secondando l’ uso de’ Medici della Francia, in questa stessa mala influenza, stabilì, che gli Medici deputati, si vestissero à lungo, di sottil drappo incerato, e che incaperrucciati del medesimo, con cristalli avanti gli occhi, si avvicinassero à gl’ infetti. Così è meno patente la via all’ offesa; perche l’ halito maligno, non ha sì facile lo spiraglio, onde possa insinuarsi ad esser attratto, con la respiratione. Suppongo, presso tale avvedimento, l’ uso anco de gli aceti medicati; dell’ herbe odorifere, de gli antidoti proportionati. Non pretermettendo qui però, che la maggior parte di quelli, c’ hann’ adoperato la Theriaca familiarmente, son periti; sconvenendo tale rimedio a’ corpi impuri, massime in estiva stagione. In altro loco ho ricordato quali antidoti convengano, attese le complessioni, i tempi, il sesso, l’ età.

Mà tornando onde partimmo, seguiva più che mai atroce il furor del male; e multiplicando le sciagure, pareva che sempre più crescesse il coraggio, e la providenza nel Vallaresso: il quale nel taglio di più d’ un grave pericolo, andava tutte l’ hore versando nella essecutione de’ buoni ordini stabiliti; e in particolare, perche fossero ne’ lor bisogni soccorsi i poveri infermi: andando anco molte volte personalmente à dispensare le Elemosine, & à racconsolare i popoli afflitti. Soleva Questi frequentemente portarsi anco al publico Lazaretto, affineche le regole e gli ordini fossero con miglior forma essequiti; facendo distinguere appartamenti; aggiungendo Medici, e Chirurghi, & indirizzando la negligenza, ò la rozzezza de Ministri, alle bisognose fontioni.

Fù al pari d’ ogn’ altra provisione, lodevole, e fruttuosa, quella di duo Padri Cappuccini, da Lui chiamati al governo del Lazaretto; sì per 1′ amministratione de’ Santissimi Sacramenti, come anco, per sopraintendenza a’ serventi subordinati, & à gl’ infermi medesimi: conciosiache concorrendo ivi tanta diversità di persone, non poteva non accadere alle volte qualchel disordine, e confusione, per mancamento d’ alcuno: che perciò, diede il Vallaresso à questi Padri, assai ampia auttorità di castigare gli contumaci: havvto però riguardo alla piacevolezza del santo Habito, alieno dalle pene, di tormento ò di sangue; volendo, che solo fosse la punitione di carcere, e di digiuno in pane, & in acqua. Non si potrebbe esprimere con parole, quanto di bene partorisse il ministerio di questi Padri.

Circa gli vintiquattro di Giugno, venuta una dolce pioggia, che apportò qualche leggiero rinfrescamento, parve, che cessasse il numero de gl’ infetti, e de’ morti: avegnache tale diminutione potesse accadere in riguardo alla moltitudine uscita in que’ giorni della Città, così di Militie, come di persone rurali, ritornate a’ loro luoghi.

Morì in que giorni, il Capitanio Sebastiano Bernardo, sacrificata la propria Vita alla cura publica, così ricercando le congiunture: senza intermissione affaticatosi sempre à Cavallo, rivedendo, e comandando: d’ habito obeso, ripieno d’ humori, in tempo estivo, in costitutione pestilente: il di Lui male fù acutissimo, mà non fù così ben in chiaro, se perisse di Pestilenza. In loco di questo fù eletto Pietro Corraro, Senatore prestantissimo, caminato per i gradi principali della Republica, e delle più degne qualità insignito, che possano in un publico Rappresentante desiderarsi: Circa que’ giorni, morì anco Giorgio Badoero, Commissario, in ogni parte grande, e stimato.

Così la falce della Morte, non solo recideva le basse piante de’ popolari, ma troncava anco gli elati arbori, della più inclita Nobiltà: E con pari colpo toccando le eccelse Torri, e più abiette Casuccie sminuiva il numero de’ Signori, e de’ Vassalli: onde per levar finalmente di mano del giustamente adirato DIO, l’ atrocissimo flagello, fù stabilito un generale ricorso, à piedi della ineffabile Clemenza; Le preci unite, sogliono havere forza grande nel divino cospetto. Sentita dunque la Predica, d’uno affettuoso Cappuccino nella Piazza de’ Signori, fu conchiuso di fare una Communione universale; premessi prima tre giorni, di rigoroso digiuno. Si vide veramente una prontezza di Ninive: già che anco, non tanto la Fede minacciava, ma la esperienza certificava del flagello, che hormai sferzava, anzi feriva, & uccideva. Nella pienezza dunque delle calamità più sensibili, e più acerbe, fu con piena divotione cercata una piena misericordia: riddotte le cose della salute à segno tale, che multiplicando tuttavia l’ eccesso delle Morti, già mancavano luoghi, modi, e ministri, per interrare i Cadaveri; onde consultatosi il Magistrato co’ Medici, se meglio fosse darli alle fiamme, ò pur se al fiume abbandonarli, non potendo porli sotterra, fù consigliato per migliore, l’ arderli in remoto, & aperto campo: Mà si opponeva la gravissima difficoltà, del mancamento delle legna; trà tutte le cose spettanti al vitto, le più difficili a proportione, da provedersene; & altresì il mancamento de gli Operarij, che componessero la pira, e vi trasponessero i Cadaveri. Che perciò, la publica providenza, costretta ad eleggere il minor male, sopportò, che que’ cadaveri che di qualche giorno erano ragunati, con insopportabile, e pericoloso fetore, fossero alla fine, mancando altro argomento di nasconderli, lasciati in preda alla corrente. Ben conosceva la mente publica, che il continuar in simil uso, poteva cagionar disordini, e danni; trattenuti nelle frequenti palificate ( che sono la fortezza de gli argini ) gli cadaveri, e sparsi per la riva della Fiumara, sopra le cui sponde molti habituri sono sparsi: e che il vedere gli humani corpi, pasto de’ cani, e de’ corbi, non solo poteva grandemente gli sbigottiti contaminare; mà che verisimilmente anco, da simile corruttione potevan mediante il calore della stagione, levarsi aliti pestilenti, con pericolo d’ infettare i propinqui luoghi: Mà la neccessità è troppo dura, & ha più forza che la ragione. La onde fino à più matura consulta, & à più fattibile opera, fù costretto il Magistrato alla permissione di simile allbora convenevole inconveniente.

Mà non solo i cadaveri ragunati alla riva dell’Adige per lo imbarco, menavano intolerabil puzza; infetto quindi tutto il tratto d’habitanze, verso la Chiesa della Vittoria più che altrove, mà etiandio i Cimiterij, di maniera empivano di fetore l’ aria, e per lo mezo di questa, anco le Case per qualche buona distanza, che il Vallaresso ristringendo gli Ordini prima dati, comandò, che non dottessero in quelli esser i cadaveri ammessi per lo avenire; volendo anco, che fossero gli avelli molto ben coperti di calce viva; e che fosse arso in buona copia zolfo per le Contrade.

In questo mentre, s’ infettò anco Ala di Trento; come pur si andava il Contagio per lo Veronese Territorio avanzando: che perciò parve neccessario al Magistrato, di ripigliare nuovi Ordini; e di multiplicare i coadiutori. Ricercò dunque il Vallaresso, dal Consiglio, che volesse proppor soggetti, che con applicatione incessante, supplissero al bisogno al possibile; percioche con simil aggiunta, il peso compartito trà i molti, sarebbe à cìascuno riuscito men grave; e ‘l frutto dell’ impiego largamente distribuito, si fapebbe provato assai più evidente. Fu dunque stabilito, che restassero gli Signori ch’ erano in Carica; e gli altri di nuovo creati, dovessero à quelli cooperare, sminuendo il peso che sostenuto da pochi, riusciva ponderoso sovverchiamente. Fù con tale temperamento dalla publica prudenza addossato il carico, che ò per la troppo brevìtà non si stroppiasse l’ affare, ò per la troppo lunghezza non si opprimesse il Cittadino.

Elesse dunque il Magnifico Consilio de’ Dodeci, per la istanza fatta dal Vallaresso, alcuni soggetti.

Duo, che con la sopraintendenza a Fisici, & à Chirurghi, osservassero, che fosse fatto il debito ufficio, verso gl’ infermi.

Duo, perche gl’ infetti fossero senza dilatione mandati fuori al Lazaretto.

Due alla espurgatione della Città da’ Cadaveri.

Due alla mondezza delle strade.

Un altra Coppia, al sovvegno de’ poveri sospetti rinchiusi.

Un altra, deputato questo al tener un libro, e quello una borsa, per le spese occorrenti di Sanità.

Altri duo, per far espurgare, e profumare le Case già infette, & allhora vuote.

Duo altri sopra le robbe à gli sborri, perche fossero ben custodite, e tenute con distinto inuentario.

Tre, applicati alle occorrente del Lazaretto, cioè alle spese, alle fabriche, & alli Ministri.

Li quali tutti, havessero auttorità di far esequire le cose alle loro cariche appartenenti, e stabilite ne’ Proclami; potendosi valere dell’attuale servitio di ciascheduno officiale della Corte.

Concedendo al Magnifico Consilio de’ Dodeci, d’impor pene pecuniarie all’ occorrenze.

Con si degne, e ben intese provisionì, si caminava alla estintione dei male, dal canto del Magistrato; affaticandosi sopra ogn’ altro, Gio: Vicenzo Maffei, allhora Provedittore di Comune, & insieme dell’Officio, Dottor di Leggi di Collegio, Avocato principale, soggetto di spiriti pronti, & elevati; Questo, dopo il Vallaresso, sosteneva il più grave peso: impiegato incessatemente, non solo nelle Consulte del Magisirato, mà in perpetue audienze, e speditionì.

Non perciò cospirando e questo, e gli altri co’l sommo Capo, profittavano le essecutioni in maniera, che il male con qualche evidenza, & universale sollievo, si vedesse ricredere. Che perciò abbondando i Cadaveri, e mancando quelle persone della plebe più infima, che assegnate erano à sepelirli, ò trasferirli, fu d’ uopo con nuovi Proclami, rimediar à tanto bisogno. Vedendo adunque il prudentissmo occhio publico, che quattro sepelitori, non erano per cadauno Sestiero bastevoli, per giornalmente portar alla barca i morti, e per interrarli, onde maggior provisione riusciva neccessaria, per evitare più importanti disordini, che sovrastavano, à pregiudicio del ben publico; fù perciò commesso a cadaun Deputato, e Rasonato di qualunque Sestiero, che dovesse incontinente provedersi di Carrettino, con Cofino, per asportare gli cadaveri al loco; e per condurre separatamente gl’ infermi. O materia funesta & orrida ! Datemi voi Scrittori delle più miserande Tragedie, lo stile flebile, e doloroso: E in vece delle arse Troie, e delle favolose Ecube, & Ifigenie, insegnatemi à rappresentar lo spettacolo c’ hò veduto, e mi rammento, mà non so esprimere. Non hà Stige l’ acque sì torbide, che adeguino la confusione del soggetto lacrimevole: Non hà querele così affannate il centro, che possano à posteri notificare tanto misere congiunture. Tantosto ch’ altri si affacciava sopra le strade, vedeva da molti canti, uscire quasiche à gara, correndo nello Stadio Olimpico della Morte, le spaventose Carrette; vestiti gli abomenevoli aurighi, di vile drappo di colore cruento, e quasi Marsi, avvezzi al veleno, spiranti livido tosco dalle squalide guancie, e dalle luci che alterava in color di foco, l’ alito igneo della pestilenza latente. Ad ogni passo, che si avanzava l’ infausto Carro, si vedevano i cadaveri contenuti, stranamente dibbattersi crollando orribilmente i confusi teschi, misti età, conditione e sessi; percuotendosi i morti visi, e con gli ochi mezi aperti, appannati dalle nebbie della Morte, e con le bocche stranamente semichiuse, aprir à miseri Cittadini una vista la più degna di lacrime, che soglia il divino sdegno in una Città prevaricante rappresentare. Pareva il Senato della Natura, divino in due contrarie fazioni; congiurate le Stelle, con gl’ influssi maligni, contra la Terra; e risolute alla distruttione della più bella facitura della mano di DIO. Anzi pur la Terra, si palesava nemica di se medesima, somministrando dalle viscere proprie que’ rei vapori, che uccidendo le persone, neccessitavano le altrui mani ad aprir à lei con profonde piaghe le viscere, per nasconder in quelle, con reciproca putredine, l’ orrore di tante Morti.

Sogliono in altre prave constitutioni, correr maggior pericolo certe compiessioni, certe età. Il Vaiuolo, i Vermini, le Epilepsie, fanno strage ne’ Fanciulli: le Pleuritidi negli adulti: ne’ piu attempati i cattarri. Nella presente, con fiera strage indistinta, si son veduti infermarsi, languire, spirar l’ anime in un punto, la più tenera infantia, la più verde gioventù, la più robusta virilità; la vecchiaia più decrepita. O’ flagello, tanto universale, quanto orrendo ! Regole Fisionomiche, addio: hebbi già in voi ( che noi celo ) una tale quale credenza, almeno superficiale. Certi sembianti c’ hanno del violento: certi occhi di torbida, & annebbiata pupilla, di rado evitarono esito di morte subita, ò infausta: In questo Contagio, si sono oscurati i più sereni, e i più puri occhi, che mai facesse la Natura; e che nella bellezza del loro lume, mostravano la compositione armonica, dell’ arcibene proportionato temperamento. Questa sola eteroclita regola, abbatte ogni regola; e quasi perverte il concerto delle constitutioni della Natura.

Mà per continuare la dolorosa materia, perche cresceva il soggetto delle fontioni, e mancavano gli Operarij; recidendo la Morte di giorno in giorno le Vite de’ Deputati, perciò sotto gli 24. di Giugno, comandò il Vallaresso, che per lo primo di Luglio, fosse fatta nuova elettione di tre di Essi per contrada, eccettuando gli Droghieri, perche senza distrattione potessero attendere al servitio urgentissimo de gl’ infermi. Che il loro carico, durar dovesse per un mese: e che per ciascuna Contrada, uno delli Vecchi estratto à sorte dovesse continuare l’ ufficio suo per giorni diece, per ammaestramento de’ nuovi.

Che tutti gli Deputati, si dovessero trasferire alla presenza del Vallaresso, per essere conosciuti, & incaricati del loro debito, e per ricevere gli ordini appartenenti alle lor fontioni: dovendo ogni settimana, il giorno di Giove, esser deputato alle audience di Essi; affineche esattamente rifferissero, se in cadauna contrada, succedessero disordini.

Le cariche erano tra cotesti in tal maniera dislribuite. Uno di essi havea la cura d’investigar gli ammalati, e i sospetti; e di far chiuder le Case infette con molta sicurezza al di fuori: facendo fare una bianca Croce ben visibile sopra la Porta; affineche veduta facilmente da ogn’ uno, si fossero potute le persone tener lontane: e la nota di queste Case, doveva giornalmente portarsi all’ Vfficio di Sanità.

Il secondo Deputato, havea carico di pigliar in lista tutti gli poveri sequestrati; e di portarla senza dilatione all’Vfficio; dal quale di giorno in giorno, erano contati dodeci soidi per cadaun povero; e questi consegnati dal Deputato ad un Mercante della stessa Contrada, eletto da’ Proveditori Ordinarij; da spendersi nelle cose neccessarie; le quali da duo Artigiani fossero distribuite con la debita cautione, per le fenestre. Alli benestanti, sovvenissero gli parenti, gli amici, i vicini, con la circospettione dovuta.

Del terzo Deputato era cura, che gl’ infermi fossero visitati dal Medico; gl’ infetti, trasmessi al Lazaretto; e gli cadaveri trasportati alla barca, ò alla sepoltura: dovendo in altro emergente che si offerisse, coadiuvar l’uno l’altro; essercitando l’auttorità già data loro dal Vallaresso.

E perche, quasi per fatale infelicità, si vedenavo molti di questi, renitenti, ò tepidi essecutori di così bisognose fontioni, per tanto fù posto loro lo sprone al fianco, di gravi pene pecuniarie, e d’ altre ad arbitrio, se fosse occorso, che dopo nominato alcuno alla Carica, e dopo havuta in iscritto la informatione delle cose da farsi, non si fosse lodevolmente impiegato, nel soccorrer la Patria.

In questo mentre, il Collegio de Medici, per procedere con più cautione, e sicurezza, e per evitare od ‘l pericolo de’ propri soggetti, in riguardo all’infettione; ò l’ira del temuto di pari, e riverito Vallaresso, formati gl’ infrascritti Capitoli, supplicò che fossero admessi.

Prima, che occorrendo che il Medico di qualche Quartiero ìnfermasse, fosse tenuto darne subito notitia all’ Ufficio; & in oltre ( per la penuria estrema de’ Medici ) potesse subordinar un Chirurgo approvato in sua vece, per lo tempo ch’ egli stesse ammalato; e che dall’ Ufficio fosse imposto al Chirurgo il visitar quel Quartiero.

Secondariamente, che quando il Medico havesse di certo, e nella propria confidenza conosiuto il male d’ alcuno esser pestilente, veduto però il male di proprio occhio, con le debite cautioni di lontananza, non fosse tenuto far la visita al letto.

Terzo, che quando il Medico si avvedesse, lo infermo occultar il male, come spesso interueniva per farsi visitar più volte fossero castigati tanto esso infermo, quanto gli di lui congiunti, ò servi, che di detta occultatione malitiosa complici fossero.

Quarto; che per trasmettere gl’ infermi al Lazaretto, dovesse bastar la fede sottoscritta dal Medico con giuramento, senza la sottoscrittione de’ Proveditori alla Sanità; perche occorreva molte volte, che non havendo gl’ infermi persona pronta, à cui commetter la cura del procurar la sottoscrittione da Quelli, accadeva, che non erano trasmessi al Lazaretto, mà con notabile pregiuditio del publico, nelle proprie Case morivano.

Tali Capitoli, furono come congrui, e ragionenoli, approvati dal Vallaresso benignamente, sotto gli venticinque dì Giugno.

Decorative woodcarving with a floral pattern

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This text is a part of the publication and translation of Il gran contagio di Verona nel milleseicento, e trenta (1631) by Francesco Pona (1595–1655), an eyewitness account of the plague epidemic in Verona in 1630.

Original

Modern

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  • Dedication
  • Libro primo
  • Libro secondo
  • Libro terzo
  • Libro quarto
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